Il Mais è originario dell'America, con due centri di differenziazione primaria, uno a nord dell'Equatore: Messico, America centrale, Colombia e Venezuela, e l'altro a sud dell'Equatore: Ecuador, Perù, Bolivia, Cile, Brasile.

La pianta del Mais era già largamente coltivata dagli indigeni in tutte le sue varietà attuali quando Colombo sbarcò sul suolo americano.

La sua coltivazione era di primaria importanza per l'alimentazione delle popolazioni indigene, che lo usavano soprattutto per confezionare un loro tipo di pane, delle focacce la cui preparazione era affidata alle donne.

Il Mais ha accompagnato, in seguito, la penetrazione degli spagnoli in tutto il Centro America: soprattutto in Messico, dove era preparato in focacce condite con ragù e miele che si vendevano sotto i portici della piazza del mercato, nella capitale.

Inoltre Pizarro trovò il Mais diffusissimo in tutto il Perù ed anche i peruviani lo usavano in varie maniere, macinato a secco o con le pannocchie ancora intere, bollito o arrosto.


 Fu lo stesso Colombo a portare la pianta in Spagna al ritorno dal suo primo viaggio nel 1493, ma occorse qualche decennio affinché la nuova coltura si diffondesse in Europa.

Il Mais venne coltivato in Europa solo a partire dal 1520 quando per la prima volta si importarono le razze messicane. Dalla Spagna (agli inizi del Cinquecento, si diffonde, oltre che in Andalusia, anche in Galizia e in Catalogna per proseguire nel Sudovest della Francia) la coltivazione si espanse nei Balcani ed in tutto il bacino del Mediterraneo, da cui si diffuse in Africa ed Asia con lo sviluppo dei commerci.

La pianta si adattò rapidamente alle condizioni ambientali europee specie a seguito della facilità degli incroci spontanei ed alla grande variabilità genetica.

Il cereale si diffuse prestissimo anche in Portogallo, tanto che è stata avanzata l'ipotesi che lo stesso Colombo avesse ceduto ai portoghesi una parte del Mais che aveva portato con se' nel primo viaggio, quando fu costretto dalle tempeste ad approdare in Portogallo anziché a Palos, e fu accolto con solenni onoranze da Giovanni II.

Nel resto d'Europa la sua produzione si avviò invece piuttosto lentamente, e nel Cinquecento il Mais fu soprattutto una pianta da giardino, oggetto di curiosità e di studio per i botanici, ma pressoché sconosciuta agli agricoltori.

Jean de la Ruelle accenna alla coltivazione del Mais iniziata nei giardini francesi a puro scopo ornamentale, e anche alcuni botanici tedeschi e olandesi parlano di coltivazioni del cereale atte più per ornamento che per la pianificazione sia nell'Europa centrale che in Inghilterra.

Esso ebbe invece una rapida diffusione in Africa e in Asia, probabilmente introdotto dai portoghesi, che avevano un vasto impero coloniale, oltre che in Brasile, anche in quelle regioni; e prosperò particolarmente nelle colonie della Guinea.

In Italia, invece, l'introduzione del Mais avviene verso il 1530 tramite il Veneto, dove ottiene un successo piuttosto rapido, tanto che fra la fine del secolo e gli inizi del Seicento le coltivazioni nella terraferma si estenderanno già Friuli e nel Polesine.


Il Mais giunge però, assai presto anche nel Vicereame di Napoli, tradizionale asse preferenziale con la Spagna, sperimentatore privilegiato di tutte le "cose nuove" provenienti dal Nuovo Mondo, forse cominciando proprio da quel cereale.

E' probabile che la polenta pasticciata napoletana sia nata prima della polenta "conssa" biellese o almeno contemporaneamente ai pasticci di polenta veneta e alla polenta e osei.

Nonostante lo zoccolo duro di un'area alimentare che va già orientandosi sempre più sulla pasta di grando duro, "fioriranno" così alcune importanti polente meridionali come la polenta di carne di maiale salata calabrese, quella con le verdure ed i legumi dell'entroterra campano e calabrese, e quella abruzzese-laziale con le spuntature di maiale.

Dal Vicereame di Napoli il Mais si diffonderà nel vicino Lazio e quindi nell'intero Stato della Chiesa, generalmente sotto forma di polenta, nel solco della lunga tradizione delle pultes romane tanto apprezzate da Catone il Censore.
Il primo a far cenno della sua presenza in Italia sarà Pietro Andrea Mattioli (1570) che nega decisamente l'origine asiatica del Mais.

 Nel 1580 il romagnolo Costanzo Felici informa che questo grano indiano, che turco malamente si suol dire, ancora piace ai nostri paesi facendolo assai bianco e dolce pane. Se poi sia atto in altre vivande, io non so.

A nord, assieme a riso e patate, esso diviene un monumento gastronomico sin dal suo primo apparire.

Scrive il Mattioli nel 1568: I villani che abitano nei confini che determinano l'Italia dalla Germania, fanno della farina la polenta, la quale dopo che è cotta in una massa, la tagliano con un filo in larghe fette e sottili e acconcianle in un piattello con cascio o con butirro et essa assai ingordamente se la mangiano.


Diffuso soprattutto fra i contadini, la clientela povera che, pur di riempire la pancia vuota, accetta per prima le novità alimentari in arrivo, e per l'alta produttività finisce per mangiare il granoturco e vendersi il frumento, il cui prezzo è circa il doppio, il cereale è ignorato dai libri di ricette della cucina dotta e ricca, dai menù ufficiali d'alta rappresentanza ed è accolto con scarso entusiasmo persino negli Herbari.

Nel 1536 comincia ad apparire in quello del francese Jean Ruel e nel 1542 in quello del tedesco Leonhart Fuchs, che per primo lo chiama turcicum e, precisando che si trova già in Germania in tutti gli orti ..., ci offre il primo disegno della pannocchia.

Il secondo compare nel 1556 ell'edizione stampata in Italia, dell'opera di Giovan Battista Ramusio Delle navigationi et viaggi.


Se l'ingresso del Mais negli erbari e nei ricettari non fu fulmineo, le proprietà decorative della pannocchia furono immediatamente intuite e recepite nel mondo dell'arte.

Primo tra tutti dal genio di Raffaello Sanzio che nel 1516, pochi anni prima della morte, ne immortalò tre nel fregio superiore dell'affresco Storia di Amore e Psiche a Villa Farnese, a Roma.

Poco dopo altre pannocchie di Mais adorneranno anche le colonne di Palazzo Ducale a Venezia, costruite intorno al 1550, e contribuiranno anch'esse ad illuminarci sull'arrivo assai precoce di questo cereale-novità sulle rive della laguna, dove si diffonderà massicciamente nel secolo successivo.

La pannocchia di Mais sarà pure raffigurata per ben cinque volte, dal 1573 al 1591, dall'estroso e geniale Giuseppe Arcimboldi (1527-1593), pittore ufficiale presso la corte imperiale a Praga e Vienna, nelle sue fantastiche allegorie dell'Estate e dell'Autunno e nel Vertunno, antico dio romano dei raccolti, dedicato all'imperatore Rodolfo II, nipote di Carlo V, dove appare in compagnia di altre due novità appena giunte dal Nuovo Mondo, il peperoncino e il pomodoro.

Diffondendosi in aree agricole sempre nuove, il Mais, pur meno pregiato del frumento, finirà per assumere nomi e definizioni diverse secondo le regioni e le epoche in cui andrà affermandosi.

Oltre che spiga di Portogallo, come l'hanno chiamato i portoghesi, nei Pirenei sarà denominato grano di Spagna, in Francia, a Bayonne, grano d'India, in Toscana dura di Siria, ma il nome più ricorrente, in ossequio ad una tradizione consolidata che vuole provenienti dall'Oriente tutte le novità di quel periodo, sarà granoturco, comune, oltre che in Italia, sia in Olanda sia in Germania, mentre in Russia si userà la stessa parola turca kukuro.


In compenso, però, i turchi, che sanno benissimo di non entrarci affatto in questa storia, si limiteranno a chiamarlo grano dei Rum, degli occidentali!

Il momento cruciale nello sviluppo della coltura del mais é quello in cui dagli orti sperimentali esso dilaga nei campi e sui mercati. Questa fase fondamentale in Italia si verifica soltanto nel corso del Sei-Settecento, contemporaneamente ai nuovi fagioli americani, capaci di ricostituire la fertilità del suolo. Fagioli e granturco, dunque, si diffondono insieme in Italia, agevolati anche dalle norme ecclesiastiche che, a seguito del Concilio di Trento, punto di partenza della Controriforma (1545-1563) per un ritorno a costumi più rigorosi e austeri, ribadiscono i giorni di astinenza dalle carni, i venerdì magri e le quaresime.

A poco a poco, quindi, il Mais si diffuse in tutta l'Italia settentrionale e, trasformato in farina, venne utilizzato per confezionare, rivoluzionandolo, un antico ed italianissimo piatto: la polenta. Si tratta, infatti, di una preparazione che risale alla latinità, già usata dai contadini che la facevano con il miglio, il sorgo, l'orzo ed il grano saraceno, con quei cereali di tipo meno nobile che costituirono per secoli la base alimentare delle classi più umili nelle campagne.


La polenta, dunque, divenne polenta di Mais, giallo o bianco che fosse, e sostituì col tempo nelle varie zone gli altri cereali, soddisfacendo la fame di innumerevoli generazioni di povera gente lavoratrice. Teneva il posto del pane e si faceva tutti i giorni al pasto di mezzogiorno, che cominciava sempre (e quasi sempre finiva) con polenta e latte. Scaldata a fette sulla brace serviva alla sera per accompagnare il poco companatico dopo la minestra in brodo, o semplicemente fredda e affettata, per la merenda da portare in filanda insieme al cocomerin, il cetriolo sott'aceto condito con olio di linosa.

Col tempo, quindi, essa divenne il piatto principale della pianura padana, mentre nel napoletano, dove era stata introdotta prima, non si mantenne, forse per la maggiore abbondanza di verdure delle zone meridionali, o perché fu sostituita, alla fine del '700, dal crescente favore del pomodoro e della regina del sud, la pasta, o, come dicono a Napoli, i maccheroni.


Ci saranno tuttavia polente e polente. E la polente gialla "alla milanese" avrà per prima l'onore di essere ammessa nei ricettari della cucina ricca e dotta de Il cuoco galante di Vincenzo Corrado, stampato a Napoli nel 1773, nel capitolo "delli timballi": "Si faccia cuocere nel brodo di cappone condito di butirro farina di grando d'India, mescolata con poco parmigiano grattato, quindi cotta, freddata e tagliata a fettoline si accomoderà nella cassa di pasta tramezzata di parmigiano, butirro e panna di latte e cotta la pasta si servirà".

In un'altra polenta alla milanese firmata Francesco Leonardi, già cuoco di Sua Maestà Caterina II imperatrice di tutte le Russie, e apparsa nella seconda edizione de L'Apicio moderno, pubblicata a Roma nel 1797 (la prima stampa risale invece al 1790), oltre al solito, tradizionale condimento suolo per suolo con butirro fresco e parmigiano grattato, troviamo il tocco di classe della cannella fina e delle fettine di tartufo cotto nel butirro.


Carlo Goldoni (1707-1793) ne La donna di garbo farà invece preparare da Rosaura per Arlecchino qualcosa di assai meno impegnativo "cacciandoci sopra mano in mano un'abbondante porzione di fresco, giallo delicato butirro poi altrettanto grasso, giallo e ben grattato formaggio. "O, tasi cara, che tu me fai andare in deliquo" dirà comunque Arlecchino.

Per tornare alle nostre tradizioni alimentari, possiamo rammentare che, dopo un periodo di crisi, le polente son tornate in auge nella cucina ricca o alla moda restituendo vigore alle antiche polente grasse di tutto l'arco alpino, alle lombarde con verdura, alle lombarde-venete con gli osei semplici o allo spiedo, alle polente unte o pasticciate, con maiale e con salsicce, alla spianatora.

Oltre a queste ricette è d'obbligo ricordare gnocchi e pizze di farina di mais sparsi in tutta l'Italia; poi il suf friulano, i zaleti veneti che si appaiano ai gialletti dell'Emilia Romagna, le beccute e la frustenga delle Marche, la pastuccia abruzzese e, per finire, il migliaccio con i cicoli della tradizione campana.

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