Il senso dell’udito conduce a due mondi antitetici paragonabili, con qualche forzatura, al paradiso e all’inferno, mondi cui si accede varcando due porte affiancate, ciascuna sormontata da un’insegna: sulla prima il cartello recita “Suono”, sulla seconda, “Rumore”.

Quando, poi, si circoscrive l’udito all’ambito dei sensi coinvolti nei fatti gastronomici, esso viene sempre relegato ad un ruolo di secondo piano, se non espulso o, comunque, ignorato.
Nella casistica gastronomica sembra che l’udito sia utile solo per rimarcare comportamenti censurabili o, addirittura, scorretti, come il cameriere che stappa le bottiglie con schiocchi che evocano la marchiatura delle vacche, il sommelier alle prime armi che non riesce ad impedire il “botto” del tappo dello Champagne, i commensali allegri che fanno tintinnare i bicchieri per coronare il loro gioioso brindisi, i rumorosi sorbitori di minestre.

All’origine di questa mortificazione dell’udito c’è un atavico vizio degli umani, caratterizzato dall’eterna dicotomia che ci vede indulgenti con noi stessi e intolleranti con gli altri. E a carico dei “vituperati” è determinante il voto di un convitato di pietra sempre presente quando ci si siede ai tavoli di un ristorante o si apre la propria tavola ad ospiti esterni, non importa se per ragioni di amicizia, obbligo o convenienza.

Un convitato che non ha bisogno di un posto assegnato, una sedia tutta per lui, un ruolo definito: il suo nome è “Galateo”.

In verità, non esistono unità di misura certe per segnare il punto dove termina il “conveniente” e inizia lo “sconveniente”.

Tutto dipende da dove viene fissata la linea di partenza: infatti, quello che per noi occidentali è il limite massimo del sopportabile del piccante, per Indiani, Pakistani e Cingalesi è addirittura la soglia d'ingresso.


E questo ci fa capire il perché sulle loro tavole, l'assunzione di cibo è frequentemente accompagnata da una qualche rumorosità, messa in atto non certo in spregio a Monsignor della Casa ma per la necessità fisiologica di "stemperare" l'aggressività sensoriale dei cibi e goderseli al meglio.

Lo stesso vale per i gorgoglii generati da Cinesi e Giapponesi quando si deliziano delle loro minestre o dei noodles in brodo. I loro canoni gastronomici impongono che siano serviti e sorbiti roventi in quanto, in questo modo, sprigionano il meglio della loro complessità gustativa proprio nel processo di lento e aereato raffreddamento che avviene nel passaggio dalla ciotola alle labbra e poi alla lingua e, infine, a tutto il cavo orale.

Non fosse fondamentale questo processo, le madri come i ristoratori servirebbero questi piatti a temperature ben inferiori.

Ma, al cospetto di questi comportamenti, noi cittadini del Vecchio Mondo scuotiamo la testa in segno di disapprovazione, un po' perché questo modo di servire gli alimenti non è nelle nostre corde e, soprattutto, perché ci siamo accoccolati tra i morbidi guanciali del nostro benessere: vogliamo godere ma senza faticare o assumerci rischi e, così facendo, ci siamo persi tra le braccia del tiepido, del leggermente frizzante, del saporito ma non piccante e dell'agrodolce.

Insomma: non straziarmi ma di baci saziami.

Eppure, le buone premesse ci sarebbero tutte: se cerchiamo di immaginare una tavola sontuosamente apparecchiata pensiamo a vasellame di porcellana, posate d’argento e bicchieri di cristallo.

Però pretendiamo che il cucchiaio d’argento non provochi nessun suono quando tocca il piatto e, nell’atto del brindisi, i bicchieri non provochino nessun tintinnio, dimenticando che, quando la pioggerellina di marzo cade sui tegoli vecchi del tetto, gioiamo nel dire che “picchia argentina” e se dobbiamo magnificare i suoni emessi dai pizzichi sulle corde dell’arpa li definiamo “cristallini”.
Tutto bello ma, per carità, non a tavola!

 

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