L’ego dei popoli è – benché sembri insensato immaginarlo – ben più smisurato di quello dei singoli individui che li compongono. In ogni momento della storia umana, qualunque popolo si crede approdato alla sua massima espressione fisica, mentale e culturale ed è profondamente convinto che il peggio sia tutto concentrato nel passato e non ci sia nulla migliore del presente.
Questo atteggiamento comporta profondo timore ed avversione per tutto ciò che viene da fuori, sia esso un migrante, una tecnologia, un modo di essere o un alimento.
Nell’epoca che stiamo vivendo, abbiamo anche inventato una singola parola che riesce a definire e a connotare in termini di preoccupazione qualunque cosa si affacci dall’esterno: “ALIENO”.

Il fenomeno è ancor più eclatante in campo alimentare: da qualunque parte si lanciano allarmi e invocazioni affinché si faccia qualcosa per bloccare l’invasione del granchio blu, del pesce siluro, dell’alga wakame...

E quelli che strillano più forte, spesso lo fanno mentre stanno sorbendo una tazza di caffè o leccando un gelato al cioccolato, due alieni che, dalle nostre parti, non riescono ad attecchire nemmeno scomodando l’ingegneria genetica.


Se ai timori e ai proclami seguissero (e fossero seguiti nel corso dei millenni) i fatti, saremmo qui a mangiare solo cicoria e broccoli, irrorandoli con quell’acqua fresca che, costruendo monumentali acquedotti, l’Impero Romano si era ingegnato di portare praticamente ovunque.
Per comprendere il concetto, è sufficiente focalizzarsi sull’invasione aliena seguita alla scoperta delle Americhe e cercare di comprendere come mai quell’invasione non abbia dato luogo a nessuna “resistenza”.

Nel Quattrocento, l'Italia, smembrata in una moltitudine di stati e staterelli, la maggior parte dei quali al servizio o sotto il dominio delle grandi potenze europee, non ha avuto nessuna possibilità di partecipare, come Paese, all'organizzazione, allo svolgimento ed al conseguente sfruttamento della scoperta del Nuovo Mondo.

Non possiamo dire se per contingenza storica, per incapacità, per indole, per volontà, per buona o malasorte, ma nessuna nave italiana ha mai varcato l'Oceano, in quegli anni, né mai, con un carico di soldati armati pronti a sfidare l'ignoto, spinti unicamente dal miraggio di nuove ricchezze e potere.

L'Italia, intesa come entità geografica ed etnografica (per poter identificare quella politica dovremo aspettare addirittura la seconda metà dell'Ottocento) alla fine del Quattrocento era, e rimase nei secoli immediatamente successivi, al di fuori dei grandi giochi politici dell'Europa, costretta a far da spettatore agli eventi allora in corso. Ma un popolo ricco di storia e cultura, maturato nei millenni al centro di un sistema di scambi commerciali ed umani, non poteva vivere passivamente questo ruolo di spettatore.

Ecco, quindi, in ogni parte della penisola, attivarsi atteggiamenti di interesse verso tutto ciò che giunge da quelle lontane terre appena scoperte, anche se nessuno ha ancora ben capito dove e come siano esattamente.

Ognuno per la sua parte, scatenano la propria curiosità politici e scienziati, contadini e letterati, amministratori pubblici e prelati, tutti costretti a lavorare su notizie frammentarie e confuse, per la maggior parte mediate da intermediari politico-militari avvezzi, per opportunità ed inveterata abitudine, più ad oscurare che a chiarire.

L'unico elemento certo su cui operare, quindi, sono i nuovi prodotti e il fatto che i loro nomi rispondano ad una sequenza di alimenti oggi per noi quotidiani potrebbe far pensare che un ruolo determinante in questo approccio con il Nuovo Mondo sia stato giocato da quell'atavica "fame" che, volenti o nolenti, percorre zigzagando come un filo da imbastitura tutta la nostra storia.
Invece no, vi sono prodotti oggi fondamentali nella dieta di ogni italiano, come il pomodoro e la patata, che riescono a suscitare interesse unicamente per ragioni botaniche ed estetiche, oppure per attribuzioni magiche, ma che stentano ad essere riconosciuti come alimenti per almeno due secoli.


Ed anche quelli assimilati più velocemente sulle nostre tavole, come il mais, hanno avuto prima ancora l'onore di essere stati oggetto di studio e fonte di creatività per menti geniali quali quella di Raffaello Sanzio e dell'Arcimboldo.

Ripercorrendo le storie dei secoli che seguirono la scoperta del Nuovo Mondo, quelle minime, quotidiane, ma anche quelle ufficiali e dotte, emerge un altro aspetto di questa nostra vivacità nella passività. I nuovi prodotti, una volta accettati ed inseriti nel ciclo alimentare, non si pongono di fianco a quelli preesistenti, come avviene in tutti gli altri paesi europei, conquistando da quel momento in poi un proprio spazio autonomo, ma si trasformano e si integrano creando immediatamente "nuovi" alimenti.
È il caso delle patate, giunte in Italia settentrionale al seguito delle truppe napoleoniche, che immediatamente si trasformano in "gnocchi".

Oppure del mais che, tanto nel regno di Napoli, dove fu introdotto dagli Spagnoli, che nel Veneto, dove giunse grazie all'intraprendenza dei mercanti veneziani, subito muta il suo aspetto in "polenta". Oppure ancora del pomodoro che, quando viene finalmente accettato come alimento, nei trattamenti di cucina perde del tutto le sue caratteristiche esteriori, eccezion fatta per il colore, e diventa sugo e salsa, pronta a sposarsi, creando nuove affascinanti ricette, con le carni, i pesci, i salumi, le verdure, i formaggi, l'olio di oliva e la pasta.

Vicende analoghe accompagnano anche gli altri prodotti del Nuovo Mondo, quali peperoni e peperoncini, fagioli e fagiolini, zucche e zucchine, tacchino e cacao. E per tutti lo scatto in avanti, il guizzo creativo, è determinato dall'incontro con quelle materie prime tipicamente italiane che già costituiscono l'impalcatura su cui poggia l'alimentazione quotidiana di quel periodo e che oggi rappresentano il cardine della "dieta mediterranea".

Se la scoperta del Nuovo Mondo segnò un momento di cambiamento radicale in ogni aspetto della società, dell'economia e della politica europea, cambiamento nel quale furono coinvolte radicalmente anche le popolazioni italiane, dal punto di vista della minuta vita quotidiana, nessun paese fu rivoluzionato come il nostro.

A due secoli di distanza dal famoso primo viaggio di Cristoforo Colombo, lo scenario in cui ogni giorno si muovevano gli italiani era completamente mutato, dalle colture dei campi ai banchi del mercato, alle preparazioni casalinghe.

I libri di storia, di solito, non si occupano di queste cose, ma non riveste minore importanza della cronaca di guerre e trattati, il rilievo che in pochi anni il nostro stesso ambiente, tanto rurale che urbano, era mutato, nei colori, negli odori, nei sapori. Ed era cambiata, ed in meglio, l'alimentazione delle nostre popolazioni, e con essa il nostro modo di vivere, e forse anche di pensare.

Quel rinnovamento dell'Europa, da tutti sbandierato guardando prevalentemente alla dislocazione degli eserciti ed alle casse dello Stato, da noi si era concretizzato accettando criticamente le novità apparentemente più insignificanti, un tubero, un frutto, un uccello, unendole alle nostre eredità storiche quotidiane e di lì creando un modo di essere e di fare davvero nuovo, nutrito e al tempo stesso svincolato dalle vestigia del passato e quantomai proiettato nel futuro.

Potrà sembrare banale e riduttivo, ma la nuova Italia, quell'Italia che in tutto il mondo è spesso ammirata ed invidiata, nasce negli orti che accolgono i prodotti del Nuovo Mondo e la sua cucina, che oggi viene evocata come simbolo e sintesi di molte nostre qualità, deve moltissimo alla terra americana e a tutte le altre terre lontane ed è ad esse che rivolge il suo più profondo e sentito ringraziamento.
Altro che cibi alieni…

 

 

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