I nostri cinque sensi sono una risorsa fisiologica straordinaria ma possono essere ben poco utili se non li stimoliamo, educhiamo ed esercitiamo. L’olfatto del sommelier come la vista del cercatore di funghi non sono doti innate ma frutto di una quotidiana messa alla prova con conseguente accumulo di memoria e catalogazione degli stimoli percepiti.
Lo stesso vale per una dote che, invece, viene unanimemente ed erroneamente ritenuta innata: il sesto senso. “O ce l’hai o non ce l’hai” è la formula ingannevole e fuorviante che troppo spesso ci induce a non coltivarlo e farne un’arma in più nel bagaglio degli attrezzi che possono rendere la nostra vita più ricca, piacevole ed appagante.
Differentemente dai cinque sensi classici e codificati, il sesto senso è una sorta di magico coltellino svizzero in grado di fornirci, di volta in volta, lo strumento giusto (o necessario).

In ambito enogastronomico la variante più preziosa è il senso della scoperta, un’attitudine che va gestita con cautela e sapienza e che viene stimolata da due pulsioni antitetiche, la curiosità e l’illusione.
Coloro che impugnano il senso della scoperta motivati dall’illusione ricercano conferme a mondi che si sono preventivamente costruiti nella propria testa e sono votati a epiloghi frustranti. Fanno parte di questa categoria i consultatori seriali di guide gastronomiche e i TripAdvisor dipendenti: arrivano decisi al ristorante, si siedono, aprono la guida sulla pagina corrispondente e ordinano in funzione dell’idea che si sono precostituita. Basta una variante alle voci del menù, un turnover nella carta dei vini, l’introduzione di qualche nuovo “piatto del giorno” per mandarli in tilt e trasformare in un attimo l’illusione in cocente delusione

Chi è guidato dalla curiosità, invece, va costantemente in cerca, insieme alle scoperte, di un proprio arricchimento, culturale e sensoriale al tempo stesso. Otterrà risultati appaganti soprattutto se eviterà – sempre - di buttarsi allo sbaraglio: la scoperta, infatti, va preventivamente indagata, preparata, programmata.
Non importa quanto lontano ci porti il viaggio, un quartiere della nostra città, un paese confinante o una nazione dall’altra parte del mondo: in ogni caso, non potremo esercitare il nostro senso della scoperta se non sappiamo nulla di quel quartiere, di quel paese o di quella civiltà. Senza dimenticare che i tentacoli della globalizzazione sono arrivati ovunque e anche nelle più sperdute periferie del mondo bisogna attivare le antenne per distinguere tra vero, falso e imitazione.

Spesso è sufficiente un rapido sguardo ai cartoni accumulati intorno al più vicino cassonetto o nel retro del casale che ospita la “deliziosa” trattoria di campagna per scoprire che le spigole “appena pescate” arrivano da un’acquacoltura turca, che la feta dell’insalata greca è emersa da un cartone che sfoggia orgoglioso la scritta “Danish Feta Cheese”, e che la matrice della succulenta cremosità delle lasagne scaturisce dalle confezioni di una sconosciuta marca di sottilette.


Viviamo in un tempo in cui impera la creatività degli chef ma alla loro tavola potremo scoprire niente di più delle loro ricette. Se invece vogliamo accedere a nuove atmosfere e sapori che non conosciamo dobbiamo battere altre strade, farci guidare non solo dagli occhi che leggono ma, soprattutto, dalla nostra capacità di fiutare, gustare e ascoltare. Non dimenticando mai che il nostro senso della scoperta fallirà se andremo alla ricerca di qualcosa che prima non esisteva mentre si esalterà se riusciremo a trovare la chiave per addentrarci in mondi che ci stavano aspettando: il destino dell’esploratore non è scoprire cose nuove ma dare nuova vita a mondi antichi.

 

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