Non si può esprimere nessuna considerazione sensata sulla musica - come su qualunque altra espressione dell’ingegno umano - se non si ha chiaro il rapporto tra le tre parti di cui essa si compone: infrastruttura, struttura e sovrastruttura.
La sovrastruttura è ciò che tutti percepiscono rimanendone affascinati, ovvero, nella musica, l'armonia.
L'infrastruttura è il DNA della musica, l'elemento da cui tutto ha origine, ovvero il ritmo.
La struttura è il mondo di mezzo, quello in cui si collocano gli addetti ai lavori, coloro che compongono e riproducono, con la voce o con strumenti, la musica. Possiamo dire che la struttura è la razionalizzazione e l'astrazione dei processi musicali che si concretizza attraverso la formulazione delle regole che ne governano sia l'infrastruttura che la sovrastruttura (come, nella lingua, grammatica e sintassi governano il parlare e lo scrivere, anche di chi non sa nulla dell’una e dell’altra).
Lo stesso vale, seppur con declinazioni diverse, oltre che per la lingua, per
la letteratura, l’architettura, la moda, l’industria automobilistica, la gastronomia....
Noi nasciamo, cresciamo e ci sviluppiamo in un mondo pervaso di suoni ma ci accorgiamo di questo ambiente sonoro solo in poche specifiche occasioni: quando i suoni
vengono a mancare (il silenzio), quando i suoni si accavallano tra loro producendo effetti sgradevoli (il rumore), quando i suoni si appalesano in maniera ciclica (o cadenzata) e inconsciamente
percepita come organizzata.
IL SILENZIO È FUORI ORDINANZA
Il
silenzio, lo si può ricercare ma è difficile da ottenere: possiamo contribuire stando zitti e fermi ma non possiamo governare nella stessa maniera tutto quello che sta intorno a noi. Anche perché,
pur stando zitti e fermi e – magari – tappandoci le orecchie, non possiamo evitare al nostro corpo di emettere suoni (negli USA, molti anni fa, un gruppo di ricercatori ha creato una stanza
totalmente isolata acusticamente all’interno della quale si poteva ottenere il silenzio assoluto ed ha condotto esperimenti sugli effetti del silenzio totale sugli uomini. Il primo dato eclatante, è
stato che, qualunque fosse la condizione della persona sottoposta all’esperimento - sesso, età, razza, struttura e integrità fisica o mentale, ecc. - essa non reggeva l’immersione nel silenzio
assoluto per più di pochi minuti in quanto questo stato induceva dolori acuti e delirio).
Il rumore è l’elemento caratterizzante dell’ambiente in cui viviamo. Fino ad un certo livello riusciamo a conviverci, a sopportarlo, a contrastarlo. Oltre, cerchiamo di rifuggirlo mettendo in
atto le tecniche più disparate, che spaziano dalla fuga alla creazione di un rumore più grande che possa sovrastare quello di fondo (una cosa brutta creata da me è meno brutta dell’insieme delle
cose brutte create dagli altri...).
RUMORE BIANCO
In molti bambini affetti da autismo si è riscontrato il fenomeno del “rumore bianco”: non percepiscono i suoni dell’ambiente circostante come se fossero totalmente sordi (e per questo hanno forti difficoltà ad imparare a parlare) ma percepiscono tutti i suoni interni al loro organismo (battito cardiaco, flusso del sangue, flussi del sistema linfatico, respiro, defluire delle sostanze nell’apparato digerente, tensioni del sistema muscolare, attriti dell’apparato scheletrico...) che si accavallano creando un “rumore” che in particolari condizioni di stress diventa insopportabile.
In questi casi estremi si riscontrano nei bambini azioni di apparente autolesionismo: afferrano un qualunque oggetto e iniziano a percuotere con esso il proprio corpo, prevalentemente la testa.
In realtà, non si tratta di autolesionismo (anche se spesso questi atti provocano lesioni) ma del tentativo di contrastare il rumore bianco introducendo nel corpo un nuovo rumore, più intenso e
sovrastante, che si distingua nettamente dal caos uditivo prodotto dal loro corpo, ovvero: un rumore ritmico, cadenzato, che rispetto alla somma degli altri possa essere percepito come proprio e,
quindi, accettabile (ogni scarrafone è bell' 'a mamma soja...).
Il ritmo, quindi, può essere definito una forma organizzata di rumore e, per questo, lo recepiamo positivamente, interagendo con lui sia a livello
inconscio che conscio: possiamo adeguare involontariamente al ritmo il nostro respiro, il nostro battito cardiaco ed i nostri movimenti muscolari, ma possiamo anche volontariamente compiere gesti
o esercitare attività che vi si sincronizzano, come per esempio ballare. In casi estremi, il ritmo può condurre ad uno stato di esaltazione o di ossessione.
Del rumore, la nostra memoria conserva la sensazione di sgradevolezza e non ci offre, in un tempo differito, strumenti mnemonici atti a riprodurlo. Del ritmo, invece, riusciamo ad immagazzinare
tipologia, frequenze, varianti e siamo in grado di riprodurlo sia pedissequamente che introducendo elementi di personalizzazione e adattamento ai luoghi e agli eventi. E quando dico “siamo in
grado di”, voglio dire che l’uomo primitivo - così come molti animali “era in grado di”.
DALLE STRADE AI SALONI DELLE FESTE DEI PALAZZI PATRIZI
Quasi sempre, quando ci poniamo di fronte a qualunque espressione umana, sia in ambito culturale che scientifico, legale, tecnico, organizzativo, ecc. ecc., prendiamo le premesse dal come la cosa è o si presenta allo stato attuale, o da come ce la hanno raccontata le fonti ufficiali.
Per
cui, nel nostro immaginario, collochiamo la musica negli auditorium, negli stadi, nelle sale cinematografiche, nelle discoteche e nelle balere, nelle cuffiette con cui ce la portiamo appresso, in
Youtube, nell’autoradio... E se andiamo a ritroso nel tempo la vediamo nei teatri dell’opera dell’Ottocento, in quelli barocchi del Sei-Settecento, nelle dimore dei nobili e dei potenti, nelle
chiese, nei banchetti degli imperatori romani e via via all’indietro. Ma, più ci allontaniamo dall’oggi e più si riduce il numero delle persone che potevano deliziarsi della musica, fino a
percentuali che, realisticamente, non superano l’1%.
Il difetto della storia che ci insegnano è che si tratta solo della storia di chi comanda, di chi gestisce il potere, di chi ha in mano il destino degli altri: è solo la storia delle élite.
Fino alle soglie dell’Ottocento, la musica non faceva parte della vita della gente tranne che in rare e cicliche occasioni: qualche volta all’anno quando c’era una festa del paese (la mietitura,
la vendemmia, l’imbottera, San Martino) e settimanalmente, in area cristiana, quando si andava in chiesa. Nella vita quotidiana non c’era la musica ma c’era il ritmo, talvolta così evoluto da
spingersi a forme che potevano far presagire la musica.
QUANDO IL RITMO ERA IN VOGA
Il ritmo c’era sicuramente a bordo delle triremi e delle galere romane, con un percussionista che sul tamburo dettava la cadenza dei remi, con variazioni imposte dalla necessità di assecondare o contrastare lo stato del mare. E, spesso, il ritmo delle percussioni era accompagnato (assecondato) dalle voci dei rematori (le sentiamo anche oggi se appoggiati al parapetto di un ponte ci dilunghiamo ad osservare gli allenamenti dei vogatori, soprattutto quelli delle categorie “con”: otto con, quattro con, ecc.).
E troviamo il ritmo accompagnare gli eserciti di ogni millennio, dagli Egiziani ai Confederati americani.
Prima con dominio delle percussioni e poi con l’introduzione delle trombe, a guidare le marce, gli assalti, e le ritirate. Ritmo voluto dai generali ma molto spesso creato anche dai soldati
stessi: tutte le canzoni militari, anche recenti, altro non sono che cantilene dominate dal ritmo e non certo dall’armonia.
Per millenni il ritmo ha accompagnato (e favorito) i lavori ripetitivi, nei campi come nelle fabbriche. Scandivano ritmi le mondine, i mietitori, chi zappava, le operaie delle filande, le
sartine, le lavandaie.
Nella sostanza, il vasto mondo della musica popolare non è niente di più che la riproposizione, dilatata nel tempo, del processo evolutivo dal ritmo all’armonia operatosi in tempi molto più brevi
nella musica che ha accompagnato i potenti e le élite. E che vede una delle sue vette nel Rythm&Blues americano, nato nelle piantagioni di cotone e che ha potuto svilupparsi fino a
raggiungere le vette che gli sono attribuite grazie ad alcuni fattori contingenti: i lavoratori nelle piantagioni di cotone erano milioni, operavano in un mercato costituito da decine e decine di
milioni di consumatori, la nascita ed evoluzione della loro musica è stata parallela alla nascita ed evoluzione della sua riproducibilità meccanica.
IL TEATRO GRECO PRECURSORE DEI TEMPI E DEI RITMI
In
realtà, l’affermazione “nella vita quotidiana non c’era la musica” non è corretta. C’è stato un periodo, oltre duemila anni fa, in cui la musica faceva parte della vita quotidiana (o, perlomeno,
settimanale): era una componente degli spettacoli teatrali dell’antica Grecia.
Il teatro, però, all’interno della civiltà greca, non era un’attività di intrattenimento bensì un sistema, ben programmato e realizzato, di educazione e acculturazione civica (ne è prova la
grande quantità di teatri costruiti anche nei più piccoli agglomerati urbani, pratica seguita poi, con le stesse finalità, dai Romani fino alla soglia della Roma Imperiale).
Aristotele,
nella Poetica, spiega chiaramente la funzione delle “arti” (nello specifico, le principali sono tragedia, commedia e farsa), finalizzate a definire i ruoli (ed il controllo sui ruoli da parte del
popolo) di chi detiene il potere, di chi costituisce la spina dorsale della società e di chi ne sta ai margini. Ebbene, nella lista della “arti”, Aristotele non elenca la musica ma più volte la cita
attribuendole un ruolo fondamentale nel sottolineare, enfatizzare, drammatizzare o sdrammatizzare le varie situazioni. Insomma, un’arte secondaria, importante ma, fondamentalmente, “di
servizio”.
Un altro ambito in cui la musica è entrata nella vita quotidiana (più correttamente: settimanale) della gente è la chiesa (intesa come manufatto architettonico deputato alla riunione delle
persone). E questo si data dal tardo Medioevo in poi.
La grande intuizione dei papi e del clero è stata quella di far trovare alla gente alcune cose basilari che al di fuori non c’erano. Nella fattispecie: le immagini, i profumi e la musica.
Fino ad allora le immagini ornavano solo le pareti delle case dei potenti e la loro funzione era quella di “impressionare” i loro pari, offrire allure, credibilità e fascino a chi le mostrava.
Infatti i soggetti erano gli avi, l’illustrazione di alcune gesta – per lo più guerresche – dei componenti attuali o remoti della famiglia, visioni dei possedimenti. La Chiesa (intesa come
istituzione) ebbe la grande intuizione di raccontare se stessa, i principi su cui si basava, gli obiettivi spirituali che perseguiva. E di raccontarli con le immagini perché dovevano essere
fruibili da una sterminata platea di analfabeti. E per essere più incisiva, affidò la realizzazione di queste immagini ai migliori illustratori del tempo (poi definiti “artisti”), con risultati
straordinari.
Un ulteriore elemento che in quel tempo aleggiava per le strade dei villaggi e delle città era la puzza, prevalentemente di urina, di merda, di sudore e di sostanze organiche in decomposizione.
Altra grande intuizione della Chiesa fu quella di creare all’interno dei luoghi di culto un ambiente in cui quella puzza dominante non ci fosse ma, anzi, a quella puzza si opponesse. Ecco quindi
l’uso massivo di sostanze aromatiche su cui, tra tutte, predominava l’incenso, forte, penetrante e capace di impregnare anche gli abiti e, quindi, di essere trascinato al di fuori della chiesa e,
per poco tempo, opporsi e contrastare la puzza esterna dominate
POI ACCADDE CHE IL PROFANO DIVENNE SACRO
Infine la musica. Al di fuori dei luoghi di culto dominavano il rumore e i ritmi che scandivano le attività lavorative e militari. Nessuna traccia di armonia e/o melodia. Immaginiamo quale effetto potesse avere sulla gente immersa in questo inferno sonoro, ora confuso ed ora organizzato (ma quando era organizzato accompagnava solo la fatica e la battaglia), l’essere immersi in un ambiente sonoro armonico, accattivante e penetrante come può essere penetrante una musica originata dalle canne di un organo ed un canto sgorgato non da una singola voce ma da un coro. E, anche in questo ambito, ebbero l’intelligenza di affidare la creazione di queste musiche alle più eccelse menti in circolazione in ogni tempo dei loro secoli gloriosi.
Questa è stata la funzione della musica fino alla metà dell’Ottocento, ovvero fino a quando la tecnologia
non ne ha permesso la riproduzione meccanica, svincolata dal contesto per cui era stata composta ed eseguita. È solo grazie a quella contingenza che si è iniziato a fruire della musica per se
stessa, trasportandola dalla radio, dal nastro magnetico e dal disco a luoghi deputati quali gli auditorium e le sale concerto (aperti a tutti), che prima non esistevano.
Resta il fatto, però, che per molti altri decenni (oltre un secolo) la musica è rimasta un’arte “di sevizio”: nell’opera lirica (da Mozart a Verdi e oltre), nei musical, nella cinematografia,
nelle sale da ballo.
I cambiamenti indotti dall’innovazione tecnologica, però, non sono sempre e solo consequenziali. I mutamenti nelle istanze che spingevano a commissionare e comporre musica datano molto più
indietro dell’invenzione del disco e della radio e si situano in un’area totalmente diversa. L’evento tecnologico che condizionò per i secoli successivi tutte le arti (e con queste, la musica)
data 1455, anno in cui Johannes Gutenberg, assemblando tecnologie diverse, tutte preesistenti, fu in grado di produrre “ben” 180 copie della Bibbia.
IL TORCHIO DA STAMPA:
L’INVENZIONE CHE METTE IN CRISI UN SISTEMA DI POTERE
Fino allora, tutte le copie della Bibbia in circolazione erano esemplari realizzati a mano da religiosi detti, appunto, amanuensi. Tomi rari e preziosissimi che finivano nelle mani del Papa, dei cardinali, dei vescovi e degli abati delle cattedrali e dei conventi più prestigiosi ed influenti. La loro diffusione era condizionata dallo stesso processo a scendere degli indumenti nelle povere famiglie: la giubba del fratello maggiore passava a quello più giovane, e poi al successivo, finché al sesto o settimo figlio toccava un indumento liso, scolorito, infeltrito. Ai parroci delle chiese di periferia e di campagna, quando arrivava, la Bibbia si presentava consunta e spesso pressoché illeggibile. Ecco quindi che si rese necessario supportare la comunicazione del “verbo” con strumenti di più immediata fruizione, quali le pitture sulle pareti delle chiese (una sorta di edizione a fumetti delle Sacre Scritture), le sculture, i bassorilievi, le parole del prelato officiante. In sintesi, quella che viene definita la “Tradizione Orale”.
La
diffusione della Bibbia stampata, avvenuta a cascata nel Nord dell’Europa dopo la prima edizione curata da Gutenberg, generò una serie di effetti collaterali: avendo a disposizione qualcosa da
leggere (e un qualcosa che, leggendolo, ti può portare alla salvezza dell’anima) si produsse un grande stimolo ad imparare a leggere. Una volta imparato a leggere, ci si rese conto che quello che
raccontava abitualmente il prelato officiante la santa messa corrispondeva minimamente a ciò che era scritto nei Vangeli e nell’Antico Testamento. Questo mise in moto – sempre nel Nord Europa – un
movimento di contestazione della Chiesa di Roma che si focalizzò su due temi principali: la denuncia del mercato delle indulgenze (argomento di forte presa popolare: follow the money...) e la
rivendicazione della supremazia delle Sacre Scritture sulla Tradizione Orale (tuttora uno dei cardini della Chiesa Cattolica). Attore principale di questa contestazione fu Martin Luther, nato 27 anni
dopo la prima stampa della Bibbia e morto 91 anni dopo.
Con qualche semplificazione, possiamo dire che l’innovazione tecnologia introdotta dal torchio e dai caratteri mobili di Gutenberg è all’origine della nascita del Protestantesimo. E questo ha
determinato rilevanti conseguenze, sotto gli occhi di tutti ma da quasi nessuno rilevate.
Il crescente passare di mano in mano delle Bibbie stampate ha ridotto grandemente la necessità di spiegare le stesse cose attraverso la pittura e la scultura: Mentre le chiese del Sud Europa
continuano ad essere costruite con grandi disponibilità di pareti atte a contenere l’illustrazione dei momenti salienti delle Sacre Scritture, nell’architettura gotica gli spazi per questa
funzione si riducono enormemente e gli interventi pittorici e scultorei vengono limitati ad immagini iconiche, cui è demandato il compito di sottolineare o esaltare i concetti, non di spiegarli:
tutta l’arte del Nord Europa dal ‘500 in poi si converte dalla produzione di immagini didattiche a quella di immagini simboliche.
NASCE IL CONFLITTO TRA
PAROLA ASCOLTATA, PAROLA LETTA E PAROLA CANTATA
Siccome i confini esistono solo nelle menti di politici (per difenderli) e dei dittatori (per infrangerli), questo radicale cambiamento – seppur molto lentamente – si è spostato da Nord a Sud impattando enormemente sulle commesse delle istituzioni religiose ai pittori e agli scultori. Perché spiegare con costose immagini la vita e i miracoli di Cristo attraverso l’opera di esimi pittori, quando le stesse informazioni possono essere diffuse con un molto più economico libro stampato?
E,
per non disperdere l’attenzione degli analfabeti, che costituivano la grande maggioranza dei fedeli, si diede l’avvio alla produzione di edizioni illustrate in cui l’arte degli incisori prendeva poco
a poco il posto, scalzandola, di quella dei pittori.
Ciò determinò l’indebolimento di uno dei tre pilastri su cui si basava l’appeal della funzione religiosa cristiana e inevitabilmente trascinò con se’ – seppur più lentamente – il secondo: la
musica. Se analizziamo laicamente la messa, essa altro non è che una rappresentazione teatrale in cui dominano i classici elementi della tragedia: la storia (con epilogo tragico e conseguente
riscatto), la scenografia ed il commento sonoro. La storia non si poteva toccare, la scenografia era stata creata dai più esimi architetti, pittori e scultori (e non si poteva toccare), la musica
era stata composta dai più grandi compositori esistenti (ed anche quella non si poteva toccare). Questo ha determinato un mesto trascinarsi della funzione religiosa mentre le nuove leve degli
artisti e dei musicisti venivano ingaggiate dai nuovi protagonisti della società occidentale: i nobili, gli uomini al comando e gli impresari dell’intrattenimento. Ecco quindi che quelli abili
nelle arti visive si misero al servizio del nuovo potere ed i migliori musicisti vennero chiamati a supportare le storie laiche raccontate nei teatri barocchi (per una ristretta elite),
settecenteschi (per una nascente borghesia) e ottocenteschi (per una borghesia ormai consolidatasi come spina dorsale della nuova società).
L’OTTOCENTESCO DUALISMO TRA ROMANZO E MELODRAMMA
Poi,
nell’Ottocento, si diffonde e si affianca all’intrattenimento teatrale, fino ad insidiarlo, un nuovo frutto dell’innovazione tecnologica: sempre più gente ha imparato a leggere e, di conseguenza, si
riversa nella lettura dei romanzi e delle novelle. La scrittura, in sostanza, altro non è che la traduzione grafica di una voce, traduzione che attraverso alcuni espedienti grafici (la punteggiatura,
il corsivo, il neretto, gli a capo, ecc.) riesce anche ad evocare una certa quantità di toni e ritmi della voce. Alla mente del lettore è demandata la funzione di costruire (ed associare) mentalmente
la scenografia, l’aspetto e l’abbigliamento dei personaggi.
Il contraltare ottocentesco del romanzo è il melodramma: una sorta di cine-panettone, sempre dai toni forti, in cui la musica è chiamata a fare da supporto alla storia rappresentata (giova
ricordare che la controparte dei produttori di melodramma – cito Ricordi per tutti – era il “librettista” e non il “musicista”: una volta deciso di rappresentare quella determinata storia, si
pensava a chi affidare la parte musicale. E con la massima indifferenza, se Verdi non era disponibile, ci si rivolgeva a Rossini o Mascagni. Esattamente come oggi avviene per le colonne sonore
dei film).
L’impatto popolare del melodramma fu enorme, ma con delle limitazioni: la gente vi assisteva una sola volta e non aveva strumenti per memorizzare l’intera opera: quel che “passava” erano alcuni
brevi brani (le cosiddette “arie” o “romanze”), orecchiabili e dal contenuto significativo. Insomma, mentre nei teatri si celebrava l’”Opera”, nelle case e nelle strade si celebravano “pillole di
Opera”, pezzettini di qualche minuto reiterati fino all’ossessione.
IL TERREMOTO EPOCALE
SCATENATO DA RADIO, DISCO E CINEMA
Finché, sul finire del secolo, presero il sopravvento la radio e il disco, e il melodramma si allineò, nella fruizione, al romanzo: il nuovo mezzo tecnico trasmetteva voce e musica e il fruitore, attraverso i meccanismi della sua mente, aggiungeva scenografia, costumi e fisionomia dei protagonisti.
Ovviamente,
questo determinò un apparente primato della musica che, spogliata del contesto ambientale e scenografico, si fece protagonista assoluta, degna di essere ascoltata di per se stessa, indipendentemente
dalle ragioni e le funzioni per cui era stata composta. E fece crescere la legione degli “amanti della musica” che non ne volevano sapere della storia per cui era sta composta, fosse essa L’Aida, Il
Trovatore o La Cavalleria Rusticana: beandosi della parte e rigettando il tutto.
Quindi, a cavallo tra Ottocento e Novecento, arrivò il cinema che, nella sua prima versione, e per qualche lustro, fu “muto”. Presto gli impresari si resero conto che il cinema, spettacolo
straordinario e affascinante, in quanto muto non aveva una forte presa sul pubblico e difficilmente avrebbe potuto competere con il teatro. E corsero ai ripari associando la proiezione con la
performance di un pianista (originariamente un organista) il quale aveva la funzione di sottolineare, enfatizzare, tragicizzare, addolcire le scene, precederne il senso, commentarle appena
compiute. Si utilizzava un solo musicista perché l’improvvisazione era la regola e sarebbe stato impossibile trovare anche una piccola orchestra in cui i singoli elementi potessero non entrare in
conflitto. Nel passaggio al sonoro fu inevitabile che la musica assumesse un ruolo rilevante nell’architettura del film, così determinante che la “grande” musica che ha saputo esprimere il
Novecento è tutta musica da film, colonne sonore in assenza delle quali centinaia di film crollerebbero miseramente (basta provare a vedere i primi film di Sergio Leone senza colonna sonora per
rendersi conto della loro povertà narrativa ed emozionale).
NON PREOCCUPIAMOCI: SONO SOLO CANZONETTE
Mentre
il cinema cresceva e si evolveva, la diffusione della radio e del disco furono l’occasione per la nascita di un nuovo prodotto musicale: le canzonette. Consciamente o casualmente, esse altro non sono
che la continuazione dell’effetto “pillola” del melodramma. Se a fronte di tre ore di rappresentazione la gente finiva per ricordarsi e canticchiare solo piccoli pezzi, perché non offrirgli un
prodotto già preconfezionato, a misura di memoria umana, al cui interno ci fossero, concentrati in pochi minuti, tutti gli elementi cardine del melodramma? Ovvero: l’amore, la gioia, il sogno, il
tradimento, il dolore, la vendetta, ecc. ecc. Basta analizzare il contenuto di tutta la musica leggera dell’ultimo secolo per rendersi conto che altro non si tratta se non di un infinito susseguirsi
di melodrammi concentrati in tre minuti.
Finché poi si arriva ai videoclip e alla musica diffusa attraverso i canali web dove, un’altra volta, i performer si trovano nella condizione di aggiungere alla musica cantata e suonata una
scenografia, dei costumi di scena, un look personale caratterizzante. Elementi che si rivelano determinanti nel successo di qualunque cantante o gruppo musicale degli ultimi quaranta anni (e
basta guardare le ultime edizione del Festival di Sanremo, dell’Eurofestival o dei Grammy Awards per rendersene conto). Ecco, quindi, che, al giro di boa del terzo millennio, la musica fa un bel
passo indietro verso le sue origini e torna ad essere arte di servizio, supporto per il compimento e – talvolta – l’esaltazione di altre arti. Torna ad essere “colonna sonora”, al punto che,
sempre grazie alle nuove tecnologie, oggi miliardi di persone girano perennemente con un paio di cuffiette alle orecchie trasformando la musica da commento musicale degli eventi inventati in
colonna sonora della propria vita.